L’edificio si trova nel cuore del Centro storico e costituisce la cortina meridionale di Largo Campo, sul quale è collocata la facciata principale, oggi in parte nascosta da un prolungamento di un altro palazzo antistante. Sull’area, in precedenza, era collocato il Palazzo di un ramo della famiglia Pinto, lasciato in eredità dall’ultimo discendente, Fabrizio al convento dei Padri Teresiani.
Esso era affiancato da altre costruzioni di proprietà del Capitolo della Cattedrale. L’intera zona, denominata i Cicari, fu acquisita nel 1744 da Matteo Genovese, barone di Montecorvino.
Come riportato per la prima volta dall’Avino, progettista del palazzo fu Mario Gioffredo uno dei principali architetti napoletani della seconda metà del Settecento.
La cronologia della progettazione e della realizzazione è stata resa nota da studi successivi che hanno pubblicato ulteriori documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Salerno e polizze di pagamento dell’Archivio Storico del Banco di Napoli. Stando ai documenti si può affermare che la progettazione del palazzo, allo stato attuale delle conoscenze, sia la prima opera del celebre architetto napoletano.
Altri lavori noti, infatti, sono tutti, anche se di poco, successivi, come il Palazzo Partanna (1746), il teatrino del Palazzo d’Afflitto (1748), il Palazzo Latilla (1754). Inoltre, la progettazione del palazzo cade prima della scoperta dei templi di Paestum, che costituiscono, quasi certamente, un enorme incentivo verso un’accentuazione della cultura purista e neoclassica. Alla luce di questi fatti la concezione del palazzo Genovese risulta molto più chiara ed allora emergono evidenti i legami culturali con gli ambienti avanzati dell’arte napoletana. Risulta, infatti, da testi biografici settecenteschi che il Gioffredo sia stato allievo di Francesco Solimena ed abbia frequentato già all’età di 14 anni, lo studio tecnico di Martino Buonocore. Inoltre, sembra che sia stato a stretto contatto con Giovanni Antonio Medrano, dal quale, all’età di 23 anni, ricevette l’abilitazione all’esercizio della professione.
Con questi riferimenti si può meglio comprendere che la cultura manifestata dall’architetto nel palazzo salernitano non è certamente quella con la quale sarà famoso nei decenni successivi, bensì è ancora strettamente legata a quella dei maestri. Il portale, infatti, è un tipico esempio delle invenzioni solimenesche con il timpano spezzato, mentre l’ampia scala con la parete traforata da voluminose aperture riprende chiaramente la realizzazione di Ferdinando Sanfelice nell’omonimo palazzo a Napoli, come già aveva colto il Blunt.
Ciò lascia emergere un’evidente contraddizione fra l’esterno del palazzo che, come già aveva colto il Gambardella, non raccoglie le istanze “sanfeliciane” e il suo interno raccordato proprio sulle realizzazioni dell’architetto napoletano. L’esterno del palazzo, fatta eccezione per il portale, non concede molto al fastoso decorativismo di finestre e balconi, che caratterizza il barocco napoletano, mentre sembra dettata da un più misurato classicismo.